L'empatia - di Edith Stein - Apostolato di preghiera per l'infanzia della Chiesa Cattolica

APOSTOLATO DI PREGHIERA PER L'INFANZIA
NISI CONVERSI FUERITIS ET EFFICIAMINI SICUT PARVULI NON INTRABITIS IN REGNUM CAELORUM
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L' "Empatia" nel senso di Edith Stein:
Atto fondamentale della vita spirituale e della persona nel processo della fede
SIMPOSIO INTERNAZIONALE
Edith Stein
Teresianum - Roma
ottobre 1998

I. L'empatia (Einfühlung) nel lavoro di Dottorato di Edith Stein

Il verbo tedesco "fühlen" (inglese: "to feel"; olandese: "voelen") è di origine germanica occidentale ed ha il significato basilare di "andare a tastoni". In origine indicava il tocco di oggetti materiali; solo nel corso del 18 secolo viene usato anche nel senso di avvertire delle impressioni dell'animo.(6) Lo studioso di München Theodor Lipps (1851-1914) ed altri letterati della psicologia empirica dell'inizio di questo secolo prendono ad usare il nuovo termine "Einfühlung" - ancora non tanto chiaro nella definizione scientifica­ come termine tecnico per lo sforzo della persona di percepire l'esperienza soggettiva interiore, propria o di un altro.  

Edmund Husserl si era appropriato di questo termine per utilizzarlo nei suoi metodi di ricerca filosofica della verità; tuttavia anch'egli non aveva ancora sufficientemente chiarito cosa dovesse intendersi precisamente ed in modo scientificamente univoco per "empatia". Questo è il compito che si proporrà Edith. In sottili analisi, intessute da chiare esemplificazioni, e nel confronto con i dati precedenti di Theodor Lipps e di altri autori, Edith perviene ad un risultato tuttora valido, anche se la ricerca fenomenologica su questo difficile tema è nel frattempo avanzata, non ultimo grazie allo stesso Edmund Husserl(7).  

1. Cosa significa il concetto di "Empatia"?  

"Empatia", secondo la definizione iniziale di Edith Stein, designa "una genere di atti, nei quali si coglie l'esperienza vissuta altrui"(8). Usa inoltre questo concetto per determinati atti percettivi particolarmente in relazione ad altre persone. (Edith Stein chiama con Max Scheler l'atto dell'empatia nella propria esperienza "percezione interiore"(9)). A differenza del giudizio (Ein-Sicht), che è rivolto ad afferrare e comprendere argomenti, idee e concetti mentali di un altro (o le conseguenze causali di un fatto nella natura e nella storia), l'em-patia (Ein-Fühlung) indica un atto conoscitivo ­ oppure la somma di atti percettivi -, che è rivolto alla percezione soggettiva dell'altro, alla sua "esperienza" interiore e perciò anche alla sua stessa personalità. "Sentire (fühlen), e in particolare em-patizzare (ein-fühlen), è un altro particolare penetrare nel mondo che la persona si rappresenta come tale", dice un conoscitore della sua filosofia(10). Con la scuola fenomenologica, si tratta per Edith di comprendere e conoscere la realtà che ci circonda in tutti i suoi "fenomeni" (forme di apparizione). A questa realtà appartiene anche il fatto che, così scrive, ci siano "dati soggetti estranei e le loro esperienze"(11). L'accesso a questo non è possibile al giudizio solo, che ha bisogno per questo della em-patia.  

Così la giovane fenomenologa si è preoccupata di "inquadrare l'em-patia (Ein-Fühlung) accanto al giudizio (Ein-Sicht), in modo che anche al sentire possa essere riconosciuto un valore conoscitivo" (Philibert Secretan)(12). Secondo Edith, "cogliere e descrivere a grandi linee" il processo interiore concreto, mediante il quale avviene tale empatizzare in un'altra persona, "deve essere il nostro primo compito"(13).  

In primo luogo, Edith cerca di affrontare questo compito distinguendo l'atto dell'empatizzare da atti conoscitivi simili, che parimenti hanno per oggetto l'esperienza vissuta soggettiva di un altro: dalla "percezione esterna", dal "sapere di vissuti estranei", dal "co-sentire" (Mitfühlen) e dall'"uni-sentire" (Einsfühlen):  

Percezione esterna, secondo Edith Stein, "è un titolo di atti nei quali l'essere e l'accadere cosale spazio-temporale viene a me come datità corporale"(14). In questo modo posso ­ come dimostrato dall'esempio del dolore che coglie un altro ­ percepire l'esplosione dolorosa di colui che soffre. L'empatia ha però come oggetto lo stesso dolore(15).  

Similmente avviene per il sapere dei vissuti estranei: in questo caso, mediante la comunicazione dell'altro, io vengo a sapere del suo dolore; ma il dolore stesso mi resta ancora estraneo, è per me un "sapere vuoto.. basato su una comunicazione", ma non mi è "dato per esperienza"(16).  

L'empatizzare è molto distinto anche dal cosentire (Mitfühlen). In questo caso, Edith sceglie l'esempio della gioia di uno studente per aver superato un esame: nel cosentire mi immetto nell'avvenimento del buon esito dell'esame, e quindi in quello per cui egli (cioè il compagno di studi) gioisce"(17); io gioisco con lui per questo evento. Empatia al contrario significa percepire la stessa gioia che lo studente ha in sé: "Nell'empatizzare, colgo la sua gioia,.. e ciò facendo mi traspongo in essa"(18).  

Parimenti, l'empatizzare (Einfühlen) e l'unisentire (Einsfühlen) sono due atti diversi. Quando godo di uno stesso avvenimento o di uno stesso oggetto di cui un altro gode, questo mi può condurre al fatto che non più solo io e lui, ma noi godiamo, noi ci uni-sentiamo nella gioia dello stesso oggetto. Ma anche questo è un processo nel quale l'atto conoscitivo è indirizzato all'oggetto comune della gioia, ma non alla stessa gioia dell'altro. Quindi "non è mediante l'unisentire che facciamo esperienza vitale degli altri, ma mediante l'empatizzare", in quanto solo "mediante l'empatia. l'unisentire e l'arricchimento della propria esperienza vitale diviene possibile" o può divenirlo(19).  

Nel caso dell'empatia quindi, riassume Edith al termine di queste determinazioni concettuali, abbiamo a che fare con "una specie di atti di esperienza vitale sui generis: .l'empatia, che abbiamo cercato di prendere in considerazione e di descrivere, è, in generale, esperienza della coscienza estranea"(20).  

2. Come avviene l'empatia?  

Al termine di questa chiarificazione concettuale, Edith affronta la questione di come si sviluppa un tale empatizzare in "una coscienza estranea"(21). Per questo premette alcune definizioni:  

Secondo la teoria dell'imitazione (Nachahmungtheorie), elaborata da Theodor Lipps, in me si realizza l'"esperienza della vita psichica estranea", mediante la quale imito ("non esteriormente, ma 'interiormente'") l'azione di un altro o la sua reazione ad una corrispondente sopravvenienza (nell'esempio portato, l'"atto visto fare" da lui), partecipando così al vissuto interiore in tal modo espresso(22). Allora io giungo "in questo dato modo, non al fenomeno del vissuto altrui, ma ad una mia propria esperienza, che l'azione vista fare dall'altro, risveglia in me"(23).  

Come l'imitazione, così anche l'associazione ad essa collegata, non conduce realmente a "cogliere la vita psichica altrui"; in questo caso escludo le sensazioni che, in seguito ad una certa azione, io stesso ho od ho avuto intorno alle sensazioni dell'altro. Nel caso esemplare proposto da Edith: "Vedo qualcuno battere un piede rabbiosamente; mi viene in mente come io stessa ho battuto il piede con rabbia; nello stesso tempo mi si rappresenta la rabbia che mi aveva allora colto, per cui dico a me stessa: l'altro è ora arrabbiato come lo sono stata io"(24). In questo modo ho ricevuto in rappresentazione non il percepire dell'altro, ma la mia propria percezione richiamata alla memoria, e di qui proiettata nell'altro.  

Lo stesso vale per la inferenza per analogia (Analogieschluß), che inferisce l'esperienza psichica dell'altro, semplicemente sapendo che di norma alcuni modi comportamentali esteriori determinano altrettante sensazioni interiori. Sebbene questo nel singolo caso possa colpire veramente, si deve però pensare che: "L'inferenza per analogia può prendere il posto dell'empatia che forse non ha luogo, e non comporta l'acquisizione di un'esperienza, ma realizza una conoscenza più o meno attendibile del vissuto estraneo"(25).  

L'empatia, così come Edith la intende, opera in un altro modo, che però è abbastanza difficile da "definire". È certamente distinguibile rispetto ad atti conoscitivi simili, ma non sufficientemente "coglibile" in definizioni positive. In che modo avvenga l'empatia, si può infatti solo "descrivere" (v. sopra) e le parole che la descrivono sono come delle finestre, attraverso cui siamo costretti a sbirciare la realtà significata. Possiamo intravedere l'empatia che avviene in un altro: un esempio evidente è rappresentato dalla stessa Edith Stein, che secondo Waltraud Herbstrith, era "per natura un 'genio dell'amicizia'"(26); ma possiamo anche intravedere, nella propria coscienza, la capacità di potersi empatizzare nell'altro, nel suo dolore e nella sua gioia . Forse - e questo mi è divenuto sempre più chiaro nel corso dello studio di questo tema ­ è necessaria proprio l'empatia, per poter comprendere l'empatia. Posso effettivamente, come afferma la stessa Edith, "anche empatizzare delle empatie; cioè, tra gli atti di un altro, che colgo nell'empatizzare, possono esserci anche atti di empatia, nei quali uno coglie gli atti di un altro. Questo 'altro' può essere una terza persona ­ oppure io stesso"(27).  

Tali finestre sulla comprensione dell'empatia le troviamo in parole come "trasposizione empatizzante" (einfühlendes Hineinversetzen)(28), "esperienza vitale della coscienza altrui" (Erfahrung von fremdem Bewußtsein)(29), oppure "endosensazione" (Einempfinden)(30), in frasi come: "empatizzando non tiriamo alcuna conseguenza, ma abbiamo il vissuto come esperienza estranea che viene data con il carattere dell'esperienza"(31) e: "L'empatia . pone immediatamente l'essere come atto esperienziale e raggiunge il suo oggetto direttamente"(32), oppure quando Edith descrive l'atto conoscitivo dell'empatia come una percezione, "in cui sono presso l'altro Io e rendo esplicita la sua esperienza vitale postvivendola"(33).  

3. Cosa si percepisce mediante l'empatia?  

In molte maniere si mostra nell'analisi di Edith che l'oggetto conoscitivo dell'atto empatico, l' "esperienza vitale altrui", può avere contenuti diversissimi. In modo corrispondente alla composizione dell'essere umano come una unità di corpo, anima e spirito, si può trattare di una esperienza vitale dell'altro corporale, psichica o spirituale. Edith dedica perciò due dei tre capitoli del suo libro ad una riflessione molto estesa sulla costituzione ontologica dell'essere umano, che lei considera come "individuo psicofisico" (capitolo III) e successivamente come "persona spirituale" (capitolo IV), per giungere in questo modo a descrizioni ancora più dettagliate dell'atto empatico. Così ella parla ad esempio della "presentificazione empatizzante" (einfühlende Vergegenwärtigung)(34) in relazione all'esperienza vitale corporale dell'altro (come un po' il soffrire di dolori fisici), della "empatia sensoriale" (Empfindungseinfühlung) oppure della "endosensazione" (Einempfindung)(35) nei suoi sentimenti e sensazioni psichiche (come press'a poco la gioia o la paura) di "comprensione post-vitale" (nachlebendes Verstehen) o "coglimento empatizzante" (einfühlendes Erfassen)(36) del suo mondo spirituale di esperienze vitali.  

Nel campo dell'esperienza vitale spirituale, che in base alla costituzione corporea dell'essere umano sta sempre naturalmente in relazione con l'esperienza vitale psicofisica, si apre ora al soggetto empatizzante "un nuovo regno di oggetti: il mondo dei valori"(37): mi viene incontro l'intero "mondo della storia e delle culture" (Philibert Secretan)(38), dal quale questo essere umano è plasmato e che egli stesso ­ in un certo modo continuamente ­ conplasma e conforma, e che è appunto l'intero mondo dei valori, nei quali egli pensa, sente, e opera.  

Ma mi viene incontro anche e soprattutto l'essere umano stesso nel suo valore peculiare. L'empatia conduce ad una "sensazione di valore (Wertfühlen), nella quale ci è data la persona dell'altro" (Philibert Secretan)(39). Edith scrive: "Come negli atti propri originari dello spirito si costituisce la propria persona, così negli atti vissuti empaticamente si costituisce l'altra persona"(40). È in definitiva lo stesso altro, che attraverso l'empatia viene percepito.  

Edith non teme, in questo contesto ­ pur all'interno del sobrio linguaggio dell'analisi scientifica ­ di parlare di questo atto dell'empatia come di un "atto di amore"(41): nell'"atto d'amore" si compie "un afferrare, ossia un intendere del valore della persona"(42); ed Edith conclude: "Noi non amiamo una persona perché fa il bene, il suo valore non consiste nel fatto che fa il bene (anche se il suo valore può rivelarsi in ciò), ma nel fatto che la persona stessa è pregevole e noi la amiamo 'per se stessa'"(43).  

4. Come è possibile l'empatia?  

In questo contesto, Edith ha elaborato un criterio decisivo, l'unico che rende possibile l'atto empatico nell'altro essere umano e nei diversissimi contenuti del suo vissuto soggettivo: l'empatia mi è possibile solo nella misura, come una analogia(44), in cui sussiste una corrispondenza essenziale tra il mio essere e l'essere dell'altro. Edith parla dello stesso "typos", che deve essere dato perché io possa empatizzarmi in lui(45). L'empatia è quindi possibile essenzialmente solo nel "typos 'essere umano'"(46). Ma poiché questo typos dell'essere umano è simile, almeno nel suo carattere corporale, ad altri esseri, posso empatizzare in un certo grado anche nel dolore di un animale. "Quanto più tuttavia ci allontaniamo dal typos 'essere umano', tanto minore diviene la quantità di possibilità di attuazione"(47) dell'atto empatico. E poiché nel campo dello spirito "ogni singola persona è per se stessa un typos", potrò d'altra parte empatizzare in un'altra persona, solo nella misura in cui io stesso sono divenuta persona: "Solo chi si sperimenta come persona, come totalità che possiede un senso, può capire altre persone"; se no "ci rinchiudiamo nella prigione della nostra particolarità; gli altri ci diventano un enigma oppure, ancora peggio, li modelliamo a nostra immagine e distorciamo così la verità"(48).  

Quanto più un essere umano ha trovato il proprio "se stesso"(49), tanto più può diventare un "maestro di comprensione"(50) ­ e vorrei aggiungere nel senso di Edith Stein: un maestro dell'amore.  

5. Cosa opera l'empatia nel soggetto empatizzante?  

Mediante l'empatia percepisco l'altra persona nel suo valore peculiare e con il mondo di valori che essa si è fatto proprio. Ma questo ha anche come conseguenza una retroazione su di me: empatizzando nell'altro, si costituisce in me, soggetto empatizzante, un nuovo Io. "Ogni coglimento di altre persone diverse", secondo Edith, "può divenire fondamento di una comparazione di valore"; l'essere umano, che è stato percepito nell'empatia ­ nel suo valore e con i suoi valori ­ ci chiarisce "quello che noi siamo in più o in meno degli altri"(51). Allora, "empatizzando, noi ci imbattiamo in campi di valori a noi preclusi, ci rendiamo coscienti di un proprio difetto o disvalore"; in questo modo, nella comprensione (Erfühlen) dell'altro, può giungere a sviluppo, "quanto in noi 'sonnecchia'".(52) ­ Giovanni della Croce (1542-1591), che due decenni dopo con le sue opere, tanto influsso avrà su Edith, ha forse voluto significare la stessa esperienza quando ha scritto: "L'amore rende simili l'amante e l'amato"(53) ­ un "principio fundamental indiscutible"(54) per il mistico spagnolo, determinante l'intero suo pensiero.  

Ritroviamo qui del tutto la situazione personale di Edith al tempo in cui lavorava alla sua dissertazione (penso qui certamente ai suoi incontri con Max Scheler, ma anche ai suoi rapporti con Anna e Adolf Reinach e con Hedwig Conrad-Martius), quando ella, come esempio per questa esperienza vitale, nota sobriamente: "Così empatizzando, riesco a comprendere il tipo dell''homo religiosus', a me essenzialmente estraneo, e lo capisco, sebbene quanto di nuovo là mi si presenti, mi rimane sempre incompleto"(55).  

6. L'empatia è possibile anche nei confronti di Dio?  

Al termine della sua prima opera Edith pone la questione: "Ma cosa accade con le persone puramente spirituali.?"(56) Cioè: l'empatia è possibile anche nei confronti di Dio? ­ Tali riflessioni, così aveva già precedentemente concluso, sarebbero "possibili indipendentemente dalla fede nella [sua] esistenza"(57) e fondamentalmente aveva già risposto in modo positivo a questa domanda: empatizzando, "l'essere umano comprende la vita psichica di un altro essere umano, ma così comprende come credente anche l'amore, l'ira, i comandamenti del suo Dio"(58). Allo stesso modo aveva riconosciuto a Dio stesso, come persona puramente spirituale e non legata alla causalità psicofisica, la possibilità di empatizzare nell'essere umano: ". e non diversamente Dio può cogliere la vita [dell'uomo]", in quanto "Dio, in possesso di una conoscenza perfetta non s'ingannerà mai sui vissuti degli uomini, come invece gli uomini si sbagliano tra loro sulla conoscenza dei reciproci vissuti".(59)  

Sarebbe allora anche possibile, che l'empatia in Dio operi di riflesso sul soggetto empatizzante costituendolo come Io? "Si danno uomini" così constata la fenomenologa, "che hanno creduto di sperimentare l'opera della grazia divina in un improvviso cambiamento della loro persona, altri che si sono sentiti guidati nelle loro azioni da uno spirito protettore"(60). Edith lascia aperta la risposta a questo aspetto della sua domanda: "Se qui si tratti di una vera esperienza vitale ., chi potrà deciderlo?"(61) ­ Essa conclude il suo lavoro di Dottorato con le parole: "In ogni caso mi pare che lo studio della coscienza religiosa sia il miglior mezzo per la risposta alla nostra questione, come d'altra parte, tale risposta sia del massimo interesse per il campo religioso. Nel frattempo lascio ad ulteriori ricerche la soluzione alla questione sollevata e mi risolvo in questa sede per un 'non liquet' (cioè: la cosa non è da chiarire ora)"(62).  

II. L'empatia come atto fondamentale della vita spirituale   

Nella seconda parte della mia conferenza, vorrei riprendere da dove Edith, giovane dottoranda in fenomenologia, ha lasciato: dalla domanda cioè, circa il significato dell'atto empatico "per il campo religioso". Su questo non vorrei rimanere nell'indeciso, come la stessa Edith, e desidero solamente provare a rappresentare, in forma di una tesi, come il suo lavoro sul "problema dell'empatia" possa divenire estremamente fruttuoso per il rapporto cristiano con Dio; il resto deve, anche in questo caso, rimanere affidato ad "ulteriori ricerche".  

1. Al centro della tradizione di fede ebraico-cristiana non c'è una dottrina su Dio, ma il Dio di Israele creduto come persona; per questo l'atto fondamentale del processo di fede umano adeguato a lui non è il semplice giudizio, ma solamente l'empatia.  

Il punto storico di partenza per l'immagine cristiana di Dio e per il suo perenne retroterra teologico, che mai è stato dimenticato nella lunga storia del Cristianesimo, sta nella fede del popolo ebraico, al quale anche Edith Stein apparteneva. I nostri "fratelli e sorelle maggiori" (Giovanni Paolo II) credono con il nostro comune "padre" Abramo ­ così testimoniano tutte le Scritture dell'Antico ossia del Primo Testamento (Erich Zenger) ­ che dietro tutto ciò che vive ed esiste vi è un "potere superiore": un Dio, che è l'origine di tutto, e al quale si deve di momento in momento l'esistere, di battito in battito la nostra vita. Questo Dio, è il Dio unico (cfr. Dt 6,4) così si era convinti almeno dal 5 sec. a.C. in Israele; ed è un Dio personale, non una mera "energia che circonda tutto" come molti uomini nel nostro mondo culturale credono oggi, ma un Dio, che di sé può dire "Io" e al quale noi uomini possiamo rivolgerci dicendo "Tu, Dio".  

È vero: quando parliamo di Dio personale, e specificamente poi in senso cristiano di tre persone nel solo ed unico Dio, utilizziamo un concetto-finestra; che allude cioè, a qualcosa di molto più ampio rispetto a quanto noi conosciamo della persona e della personalità nel campo umano. Dio ­ ossia i tre in Dio ­ è persona in un senso molto più comprensivo e perfetto, insondabile per noi. Ma nessun'altra parola sarebbe adeguata e meglio appropriata, per indicare la giusta direzione nella quale muoverci per pensare di Dio e farci un'idea della sua realtà. Può quindi Dio, il principio di tutto ciò che esiste, essere più piccolo e ristretto di quanto la creazione ha prodotto come forma più alta dell'esistenza? E può ­ possono i tre in Dio ­ essere una forma di essere più ristretta dell'uomo di Galilea, Gesù di Nazaret, che ci ha reso vicino e presente Dio come una persona e una personalità umana? Dio è (e questo significa il discorso teologico della "analogia entis", che da sempre è il presupposto a tutto ciò che è affermabile di Dio) come minimo ciò che noi chiamiamo "persona"  

Al centro della tradizione di fede ebraico-cristiana non c'è una dottrina su Dio, ma la stessa persona di Dio, ossia le persone in Dio: non la "dottrina della Chiesa", ma colui sul quale la dottrina della Chiesa riflette; non la Teologia (Theo-Logie), ma lo stesso Dio (Theos) personale. Inoltre, come Eugen Biser sottolinea fortemente nell'ambiente contemporaneo di lingua tedesca,(63) la fede cristiana, come anche quella ebraica, non sono "religioni primarie del libro, ma secondarie"(64); cioè: noi, ebrei e cristiani, crediamo non ad un libro rivelato, dettato da Dio (ispirazione verbale), ma alla sua autorivelazione nella creazione e nella storia, che si è condensata nelle Sacre Scritture come esperienza vitale umana "per mezzo di uomini ed alla maniera umana" (Vaticano II)(65). Al centro della nostra fede c'è perciò, neanche la Bibbia, ma Colui del quale la Bibbia parla.  

L'atto fondamentale del credere ­ credere (in tedesco scritto minuscolo) come "parola fattiva" (Tätigkeitwort) ­ consiste di conseguenza non soltanto nella comprensione delle verità di fede, ma al di sopra e principalmente nel rivolgersi alla persona di Dio, cioè in un atto della relazione personale-esistenziale Io-Tu. Tommaso d'Aquino, anch'egli divenuto maestro di Edith, ha perciò chiamato la preghiera l'"atto religioso in senso proprio" ("oratio est proprie religionis actus").(66)  

Ma se è così, allora solamente l'empatia descritta da Edith Stein corrisponde al comportamento dell'uomo adeguato a Dio.  

Come mostrato in precedenza, anche la filosofa ancora "non credente", ma aperta rispetto al "fenomeno fede", ha ammesso essenzialmente la possibilità dell'empatia in Dio, in quanto "persona puramente spirituale". Per lei rimane aperto il quesito "se qui si tratti di vera esperienza vitale" (vedi sopra), se quindi (in questo caso innanzitutto sotto l'aspetto filosofico) l'esperienza vitale umana di Dio, fatta mediante l'empatia, sia nascosta dalla realtà oggettiva. Ma questa questione dovrà rimanere sempre aperta, quando si crede a Dio nell'amore onesto della verità.  

2. L'empatia è un aspetto essenziale della "preghiera interiore".  

Già i teologi dell'epoca patristica hanno descritto la preghiera, l'"atto religioso in senso proprio" (vedi sopra), come una "elevazione" o un "rivolgersi dello spirito a Dio", come "elevatio mentis in Deum" e "intentio mentis ad Deum".(67) Il vocabolo "mens" qui utilizzato, nella sensibilità linguistica dei latini sta per energia mentale, comprensione, spirito dotato di ragione, coscienza ma anche per cuore, anima, temperamento, volontà e passione ­ quindi per la totalità delle proprietà "interiori" dell'anima e dello spirito umano. Il concetto scolastico da qui derivato di "oratio mentalis", che viene reso nell'area linguistica germanica dal 14 secolo con il termine "preghiera interiore" ("inneres Beten", in inglese: "inner Prayer") e che come "oración mental", ha trovato diffusione nel linguaggio della mistica cristiana soprattutto grazie a Teresa d'Avila(68), non significa, come spesso viene male interpretato ­ anche nel "Catechismo della Chiesa Cattolica" -(69) una forma speciale di preghiera accanto alle altre, ma il vero nòcciolo della preghiera. La "preghiera interiore" ­ in monastero Edith incontrerà questo concetto come un termine essenziale della spiritualità carmelitana ­ significa una preghiera "che scaturisce dal di dentro", una preghiera "cosciente", esattamente la stessa, sia che formalmente si pratichi con o senza parole, vocale o silenziosa nel cuore, contemplativa o di richiesta di ringraziamento di lode, come liturgia o nella "tua camera" (Mt 6,6). È una preghiera, mediante la quale l'uomo consente all'amore di Dio di esprimersi, amore del quale Gesù dice, con una citazione dal Primo Testamento (Dt 6,5), che si tratta del più importante di tutti i comandamenti, allo stesso livello dell'amore del prossimo, e deve essere praticato "con tutto il cuore, con tutto la tua mente e con tutte le tue forze" (Mc 12,30 e parr.).  

Edith ha descritto l'empatia come un "atto fondamentale" nella relazione con le altre persone e l'ha designata come "atto d'amore". L'empatia dovrà quindi appartenere essenzialmente anche all'atto dell'amore di Dio e perciò alla "preghiera interiore" mediante la quale si realizza l'amore verso Dio. Nell'empatizzare mi interesso veramente dell'altro, in questo caso di Dio, del suo "valore", della sua persona. La nostra religiosità corre altrimenti il pericolo di divenire "utilitaristica", in un modo che già Mastro Eckhart (1260-1328) ha marchiato con parole molto chiare: "Tali uomini vogliono vedere Dio con gli stessi occhi con i quali vedono una mucca, e vogliono amare Dio allo stesso modo con cui amano una mucca. Tu ami una mucca a causa del latte e del formaggio e in ogni caso per il tuo proprio tornaconto. Così ritengono tutti coloro che vogliono amare Dio per la ricchezza esteriore o per la consolazione interiore. In realtà quelli non amano Dio, bensì la propria utilità personale"(70). Queste righe non hanno perso affatto in attualità ­ svergognando non tanto i credenti delle nostre comunità, ma soprattutto noi, i "pastori", nella misura in cui a nient'altro sappiamo condurre se non a pervenire con i mezzi religiosi al "latte e formaggio"!  

L'amore di Dio si realizza nella "preghiera interiore", ma la "preghiera interiore" è essenzialmente empatia.  

Concretamente l'empatia in Dio si realizzerà nella forma della preghiera contemplante, che è un "ascoltare" piuttosto che un parlare, uno "sperimentare" e "gustare" la "parola di Dio" come dicono i mistici spagnoli; ma soprattutto nella preghiera silenziosa ossia contemplativa, in una ­ così si esprime Giovanni della Croce ­ "avvertenza amorosa"(71) immersa nella presenza nascosta di Dio, mediante la quale l'orante si mantiene aperto all'"irruzione di Dio nell'anima", a quella "scienza", in cui "Dio (stesso) istruisce e ammaestra l'anima nella pienezza dell'amore", e che "i contemplativi (chiamano) contemplazione o anche 'teologia mistica'"(72).  

3. In Gesù di Nazaret Dio è divenuto empatibile ­ autenticamente empatibile.  

È una convinzione generale dei cristiani delle comunità primitive, che Dio si sia fatto uomo in Gesù di Nazaret. I Concili di Nicea (325) e Costantinopoli (381) hanno designato Gesù "Dio da Dio", "Dio vero da Dio vero" e "della stessa sostanza del Padre"(73). Anche se sempre cerchiamo di rendere a noi comprensibile questa verità di fede nell'orizzonte di pensiero attuale, essa rimane tuttavia quanto vi è di "essenzialmente cristiano" nel nostro Credo.  

Questo però significa, in riferimento al nostro tema: Dio si è fatto a noi empatibile in quanto persona umana. Se in Gesù, Dio "si è fatto simile a noi in tutto, eccetto il peccato"(74), come formula il Concilio di Calcedonia (451), allora egli è diventato, per dirla con le parole di Edith, il "typos 'Essere umano'", con la stessa costituzione psicofisica e spirituale-personale che abbiamo noi. Cosa Edith ha elaborato sull'empatia negli esseri umani, è valido allora senza eccezioni anche in relazione a Gesù Cristo fatto uomo.  

Sollevando la questione, se l'atto di empatia in Dio possa essere considerato una "esperienza vitale genuina", Edith ha sicuramente avuto davanti a sé non soltanto (se non soprattutto) il dubbio filosofico fondamentale sulla conoscibilità oggettiva di Dio (v. sopra), ma forse innanzitutto il problema antropologico-psicologico rappresentato dal fatto che noi uomini, rinchiusi "nella prigione della nostra particolarità", ci "modelliamo a nostra immagine" altre persone ­ in questo caso Dio ­ (v. sopra) e così perveniamo a "immagini illusorie di tale esperienza vitale"(75). Quanto la questione di Edith, da questo punto di vista, fosse attuale e come continui ad esserlo fino ad oggi, non c'è bisogno sia sottolineato e dimostrato; in questa sede può essere sufficiente il rimando alla ricchissima letteratura pastorale-psicologica contemporanea, con titoli come "Immagini spente di Dio"(76) o "Immagini demoniache di Dio"(77). Proprio per sfuggire a questo pericolo del "modellarci a nostra immagine" e della proiezione in Dio di rappresentazioni eccessivamente "umane", Teresa d'Avila, Dottore della Chiesa, e con lei molti altri ancora, ha insistito veementemente sulla necessità imprescindibile della "contemplazione dell'umanità di Gesù" nella vita spirituale(78).  

Nell'uomo Gesù di Nazaret, Dio si è fatto empatibile ­ autenticamente empatibile nel suo "valore" e con suoi "valori".  

4. Solo nell'accordo tra esegesi storico-critica e la relazione empatizzante con Gesù io incontro il "mondo dei valori" di Gesù e il "valore" Gesù.  

Dall'apparizione dell'enciclica "Provvidentissimus Deus" nell'anno 1893, la Chiesa Cattolica accetta l'esegesi storico-critica, cioè una lettura della Bibbia che si interroghi scientificamente sul senso originario (quindi "storico") del testo biblico. "L'interprete della Sacra Scrittura, per capire bene quanto Dio ha voluto comunicarci, (deve) ricercare con cura quanto gli autori sacri abbiano inteso significare e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole"(79), si recita in seguito nei documenti del Concilio Vaticano II. Con uno scritto della Pontificia Commissione Biblica sulla "Interpretazione della Bibbia nella Chiesa"(80) del 1993, Papa Giovanni Paolo II ha ricordato ancora una volta la necessità di questo modo di procedere, ed ha respinto ogni rifiuto fondamentale del metodo storico-critico come rifiuto del "mistero dell'ispirazione della Sacra Scrittura e dell'Incarnazione"(81); dice il Papa: la Chiesa prende " sul serio il realismo dell'Incarnazione ed è per questa ragione che attribuisce grande significato allo studio storico-critico della Bibbia"(82).  

I testi biblici hanno così diritto ad essere letti e compresi per quello che vogliono dire nel loro "modo di esprimersi" originario(83). E in questo modo, proprio in relazione agli scritti del Nuovo Testamento, ci è stato donato un vero e proprio tesoro di conoscenza, che ci aiuta a comprendere in modo più profondo ed autentico il messaggio di Gesù.  

Critiche circa una certa presentazione unilaterale dell'esegesi storico-critica in teologia e nella predicazione, come vengono presentate anche nel suddetto documento della Pontificia Commissione Biblica, sono tuttavia assolutamente legittime. A mio giudizio questa presentazione unilaterale consiste innanzitutto nel fatto che ci si fermi alla questione (fondamentalmente giusta!): cosa Gesù ha veramente detto, cosa ha veramente fatto? A questo deve seguire la domanda: chi sei tu, Gesù? Ma il porla (nella preghiera, rivolti oggi al Cristo, che è il Gesù di ieri) è un atto di empatia; allora essa significa in concreto: chi sei tu, Gesù, quando hai parlato così e così, hai fatto questo e questo?(84) Empatizzando, io "origlio" dietro le sue parole e le sue azioni, nella stessa persona di chi parla e di chi agisce. Solo empatizzando, mi porto veramente alla sua altezza.  

Entrambi i modi di conoscenza, quello storico-critico e l'empatia, vanno insieme e si completano a vicenda. Lo sforzo di giungere alla comprensione del significato originario di un testo, da solo, rimane meramente orientato "al fatto"; l'empatia da sola può facilmente condurre a che, io sulla base del testo compreso troppo superficialmente o in modo totalmente sbagliato, mi empatizzi in una personalità apparente, che non corrisponde alla realtà né del Gesù Cristo "storico", né di quello "kerygmatico". Solo nella sintesi tra esegesi storico-critica e relazione empatica con Gesù incontro il "mondo dei valori" di Gesù e lo stesso "valore" Gesù.  

Alla questione, in che misura allora i Vangeli, in base alla storia della loro origine, rendano ancora possibile un accesso autentico al messaggio originale di Gesù e alla sua personalità storica, viene attualmente data una risposta positiva, con un consenso sempre maggiore nelle Scienze Bibliche;(85) in realtà la questione è anche e continua ad essere il tema rappresentato dal metodo storico-critico nella teologia della Chiesa ­ un tema necessario, proprio per amore della "verità" dell'empatia.  

5. Non attraverso il giudizio, ma mediante l'empatia in Gesù si costituisce nel credente l'"uomo nuovo".  

Cosa Edith dice infine sulla retroazione che l'empatizzare in un'altra persona ha per conseguenza nello stesso soggetto empatizzante, è stato da sempre conosciuto e confermato riguardo all'empatia in Gesù Cristo. Che l'amore empatizzante "renda simili l'amante e l'amato", è un "principio fundamental indiscutible", non soltanto per Giovanni della Croce; l'intera tradizione del cristianesimo lo sa. Già la dottrina patristica della divinizzazione dell'uomo, secondo la quale "Dio si è fatto uomo, affinché l'uomo divenisse Dio" (Agostino) è segnata da questo vissuto. Angelo Silesio lo ha riassunto nel verso: "Uomo, tu sarai trasformato in ciò che ami: diventerai Dio, se ami Dio ­ e terra, se ami la terra" (Cherubinischer Wandersmann).  

Non solo mediante il giudizio (Ein-sicht) sulla verità di fede della Chiesa, ma attraverso l'empatia (Ein-fühlung) nel Dio che si è fatto uomo in Gesù, si costituisce l'"uomo nuovo"..  

L' "empatia": un tema che, a mio parere, sarà di significato fondamentale per il corso del cristianesimo nel terzo millennio! Il nostro amore per Dio e il nostro amore del prossimo avranno la forma che diamo o non diamo loro, mediante l'empatia. Le idee di Edith Stein, al tempo della stesura del lavoro dottorale ancora assolutamente "non religiose" potrebbero dare una mano a rinnovare l'immagine della Chiesa e il "volto della terra".  

P. Reinhard Körner, OCD
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